Costa più di 50€ e viene prodotto dallo zibbetto, un animale che popola le isole indonesiane. Il caffè più caro del mondo è indonesiano, è il kopi luwak; fuori dall’Indonesia una tazzina può arrivare a costare più di 50€, ma anche nei peggiori bar di Kuta (si dice sempre così, no?) i prezzi sono tutt’altro che popolari. L’ho bevuto a Bali prima di sapere come viene prodotto, che altrimenti credo ci avrei pensato bene, ma la vera notizia è che si può assaggiare anche senza spendere un capitale, basta andare in una piantagione: io ne ho scelta una dalle parti di Gianyar, a poco più di 10km da Ubud.
“Kopi” in indonesiano significa caffè, il “luwak” invece è uno zibetto che popola le isole di questa parte di mondo e vi chiederete che c’entra; c’entra perché il luwak è goloso delle bacche di caffè tanto quanto può esserlo di insetti, è che non riesce a digerirle completamente, così le espelle quasi come le aveva introdotte: i peccati di gola vengono sempre puniti, ahimè. Gli enzimi di questo animale intaccano quindi solo la scorza esterna della bacca, col risultato che il caffè che ne verrà poi ricavato non avrà il tipico retrogusto amarognolo, ma piuttosto un sentore di cioccolato (lo so che state ridendo e so anche il perché, ma cercate di pensare al più famoso caffè vietnamita, o a quello cambogiano, siamo tra persone serie qui). Capite quindi come mai dico che se lo avessi saputo prima, forse non l’avrei assaggiato. I prezzi sono esorbitanti a causa della produzione limitata, non fosse altro che per il fatto che di luwak non ce ne sono così tanti; se però mi permettete una considerazione personale, non credo che prezzi del genere siano comunque giustificati: il caffè non è male, bisogna dirlo, ma a onor del vero ne ho assaggiati di migliori a costi molto più umani.
Quello che mi sento di raccomandare, piuttosto, è il tour della piantagione, non tanto per vedere gli zibetti perché ce ne sono giusto un paio per le foto di rito e mettono un po’ di tristezza, quanto perché è un ottimo modo per avere una panoramica della produzione balinese di caffè, appunto, ma anche di cacao, ginseng e the (da non perdere quello al lemongrass): alla fine del tour, poi, potrete assaggiare tutto, kopi luwak incluso, anche se decidete di non partecipare alla visita guidata e fate quattro passi in totale autonomia.
Se invece preferite qualcosa di alcolico, potrete farvi spiegare come viene prodotto il vino di palma e come viene distillato successivamente in arak, questa sorta di rhum che assomiglia più che altro a benzina e che fa da base a molti cocktail serviti sull’isola di Bali: arak colada, arak mojito, e tanti altri ancora, a seconda della fantasia del barista. I balinesi lo bevono anche da solo, in comodi bicchieroni da mezzo litro scarso, ma non mi sento di consigliare l’emulazione: quello è professionismo vero. Io non ho partecipato alla visita guidata perché in piantagione ci sono andata col mio local di fiducia, ed è proprio questo il suggerimento che mi sento di dare: se possibile, fatevi accompagnare da gente del posto con cui chiacchierare, perché le varietà di piante presenti sono davvero molteplici, ed è bello farsi raccontare come vengono impiegate nella vita di tutti i giorni, così com’è bello scoprirne di nuove. Personalmente, mi sono imbattuta proprio qui per la prima volta nel “salak”, o “snake skin fruit”, un frutto dolcissimo che si può anche cuocere, e del quale sono diventata subito ghiotta, almeno quanto lo zibetto lo è del caffè. Con la sola differenza che io il salak lo privo eccome della scorza esterna: se lo chiamano snake skin fruit ci sarà una ragione, sarà forse per questo motivo che lo zibetto non lo mangia?
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